ARMENIA IN INVERNO, AVVENTURA SUL CAUCASO


Raggiungere il Paese via terra è un'avventura: le frontiere con l'Azerbaijan e la Turchia sono chiuse per i rapporti tesi con in due Paesi, mentre  il punto di confine con l'Iran, a sud, è circondato da decine di chilometri di tornanti in una regione impervia e disabitata.

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Sopra ai duemila metri il cielo è azzurro ma gli bastano pochi minuti per diventare grigio piombo. Dai tralicci dell’alta tensione pendono candelotti di ghiaccio e all’orizzonte distese immacolate riflettono il sole, appena soffia il vento la neve vola in strada, come in una bufera. D’inverno l’Armenia è gelida ma è facile incontrare belle giornate, perché il clima del Caucaso in alta montagna è asciutto, quasi desertico. Raggiungere il Paese via terra è comunque un’avventura: le frontiere con l’Azerbaijan e la Turchia sono chiuse per i rapporti tesi con in due Paesi, mentre  il punto di confine con l’Iran, a sud, è circondato da decine di chilometri di tornanti in una regione impervia e disabitata. L’unica soluzione – sempre che la neve lo consenta - è arrivare dalla Georgia in treno o con una marshrutka, il taxi collettivo tipico nei Paesi dell’ex Urss.

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L’ingresso nel punto di confine di Bagratashen porta nella Gola del Debed, un canalone roccioso lungo decine di chilometri dove il fiume scorre tra strapiombi di roccia di rossastra. Villaggi di montagna e monasteri millenari convivono con cittadine industriali e scheletri di ferro e cemento, ruderi dell’epoca sovietica devastati dagli inverni. Le attrazioni principali - i monasteri di Sanahin e Haghpat, entrambi Patrimonio dell’Unesco - sono in cima a all’altopiano, a pochi chilometri dalla miniera di rame di Alaverdi.  La chiesa più antica di Sanahin risale al 928 e sembra abbandonata da secoli, il rumore dei passi rimbomba tra cappelle e gallerie coperte dal muschio.

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La strada per Vanadzor, una città sovietica con fabbriche chimiche dismesse e tralicci arrugginiti, è un tortuoso susseguirsi di asfalto che si sbriciola e buche. Ma la salita al lago di Sevan, a 1900 metri, ripaga di ogni sobbalzo: una distesa di acqua blu si distende tra le montagne innevate tra vento incessante, aquile e nuvole che corrono veloci. La regione è nota per la limpidezza del cielo, per il gelo - con temperature che da dicembre a febbraio scendono anche venti gradi sotto zero – e lo splendido monastero  sulla penisola, a picco sul lago, dove venivano rieducati i monaci peccatori. Il vicino passo di Selim è chiuso da novembre ad aprile, per cui bisogna passare da Yerevan per visitare il resto dell’Armenia. Ma non è un problema: con una deviazione di 30 chilometri dalla capitale si raggiunge il Monastero di Ghegard, una chiesa rupestre costruita in una meravigliosa e arida gola. Il monastero porta il nome della lancia che trafisse il costato di Cristo e fu fondato nel IV secolo, ma venne dato alle fiamme e depredato dagli invasori arabi nel 923.

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Se si è diretti a sud, con una jeep si può azzardare il bivio da Garni per Artashat, una strada disastrosa che attraversa steppe di terra arancione e scavalca un monte con una pista sterrata. Non ci sono indicazioni e nemmeno villaggi - solo qualche gregge di pecore e macchine sovietiche cariche come pulmini – ma quando si arriva sulla cima del monte gli occhi brillano di emozione: in fondo alla pianura il monte Ararat domina il paesaggio con i suoi 5165 metri rivestiti di neve e leggenda, un cappuccio di ghiaccio e l’enigma irrisolto dell’Arca. L’Armenia meridionale dista cento chilometri e due passi di montagna in un paesaggio marziano con pietraie rosse, dove gli abitanti dei pochi villaggi vendono lungo la strada spiedini di agnello e pezzi di ricambio per le automobili. Il passo di Vorotan è a 2344 metri e si raggiunge con tornanti e strapiombi che farebbero tremare le gambe, anche senza i guard rail sfondati sostituiti da mazzi di fiori.

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Sull’altopiano di Sisian nevica anche ad aprile e per mesi il paesaggio diventa un deserto bianco punteggiato da tralicci dell’alta tensione e rari benzinai. Goris è l’l’unica via d’accesso al Nagorno Karabakh, la regione armena dell’Azerbaijan che nel 1992 si è autoproclamata indipendente. Alla frontiera la polizia è sorridente e addirittura consente di scattare foto ricordo ai pochissimi turisti, ma bastano pochi chilometri per accorgersi quanto siano diffusi i camion militari e le tute mimetiche. Occorre fare molta attenzione perché nella zona a ridosso del confine azero ci sono continue violazioni del cessate il fuoco. La prima città che si incontra è Shushi, un tempo uno dei centri più grandi del Caucaso meridionale. Durante la guerra del 1989-1994 fu abbandonata da buona parte degli abitanti e nonostante sia in ricostruzione sembra ancora una città spettrale.  La capitale Stepanakert, 50 mila abitanti, è a un’ora e mezza di curve dal confine. Le attrazioni sono poche, così come ristoranti e alberghi, ma è una tappa obbligata per acquistare il visto da mostrare all’uscita del Paese.

Al rientro in Armenia è d’obbligo visitare Tatev, un villaggio costruito su uno sperone di roccia ai margini della Gola del Vorotan. La strada che lo raggiunge è sterrata ma nel 2010 è stata inaugurata la Wings of Tatev, una funivia di 5740 metri (la più lunga del mondo), che sorpassa il canyon viaggiando a più di 300 metri dal suolo. Nelle guest house del villaggio i pasti sono caserecci e le notti gelide, ma i proprietari sono ben felici di riscaldare gli ospiti con qualche bicchierino di distillato.

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Nella strada di ritorno verso Yerevan ci sono ancora due monasteri sensazionali:  Noravank, appollaiato in una gola color rosso mattone, e Kor Virap, onnipresente nella cartoline con il monte Ararat alle spalle. La capitale Yerevan è il cuore dell’Armenia eppure sembra sempre in vacanza, con i negozi che aprono dopo le dieci di mattina e le strade del passeggio affollate anche quando è buio da un pezzo e il termometro crolla sotto lo zero. La città non è bella ma un sapore post-sovietico accattivante, fatto di macchine potenti ed edifici russi tirati e lucido, boutique di grandi firme e librerie dalle pareti di legno intagliato. Il Matenadaran, il museo dei manoscritti, raccoglie l’eredità millenaria dei monaci in una collezione di 17 mila opere che spaziano dalla biologia alle prime mappe del mondo.

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L’attrazione indiscussa della città è però il Dzidzernagapert, il monumento che commemora il Genocidio degli armeni da parte dell’impero ottomano durante la prima guerra mondiale. A Sardarapat, una piana a una quarantina di chilometri da Yerevan, proprio di fronte al confine turco, ne sorge un altro ancor più imponente. Tori alati e una torre campanaria alta più di 30 metri ricordano che qui l’Armenia vinse la sua battaglia più importante. Era il maggio del 1918 e il popolo armeno riuscì a stoppare l’avanzata ottomana: c’erano voluti tre anni di massacri, e un milioni di morti da dare alla storia nell’indifferenza nel mondo.

(Repubblica.it, 19 febbraio 2015)