GLI ALPINI DEL XXI SECOLO 

Con 10.800 effettivi, gli alpini italiani sono la più cospicua truppa da montagna nell’Europa del Terzo millennio. Oggi sono professionisti addestrati per operazioni militari in ambienti estremi, per il peacekeeping e per l’intervento d’emergenza nelle calamità naturali. Molto è cambiato dalle origini, ma i valori sono rimasti gli stessi di sempre.

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Per dormire più notti in una buca dentro la neve, dicono gli alpini, il trucco è semplice. «Avere nello zaino una decina di guanti e di calze». Uno pensa allo spirito indomito, alla genetica dei montanari o a un potere taumaturgico della penna: e invece il segreto sta nell’uso sapiente della biancheria. «Perché quando le temperature raggiungono i 20 gradi sottozero e per giorni non puoi mangiare niente di caldo, scacciare il freddo è impossibile. E allora l’importante è restare con le mani e i piedi asciutti». A svelar “la regola del fante” brillano gli occhi agli istruttori del Centro Addestramento Alpino di Aosta, a cena in tuta mimetica in una caserma della Val Veny, al confine con la Francia. Courmayeur è a pochi chilometri, il Monte Bianco lì di fronte. Intorno solo neve, abeti, baite. E venti giovani allievi, che stanno vivendo all’addiaccio per tre giorni e tre notti come prova finale del corso di Mountain Warfare, il combattimento in montagna.  «Anche questo crea lo spirito alpino. Perché nella neve il capitano o l’ultimo dei soldati sentono lo stesso freddo».

Due sessioni di estate, due di inverno, 80 partecipanti ogni anno. Meno della metà raggiunge il diploma, ma il loro futuro è segnato: far parte di una élite di soldati e ufficiali alpini in Italia. In grado di combattere meglio di tutti contro un eventuale gruppo di terroristi asserragliati sulle Alpi o sulle montagne afghane, ma anche di intervenire in poche ore dopo un terremoto o una valanga.  «Possiamo andare in spazi innevati che nessun altro riesce a raggiungere - assicura il comandante delle Truppe alpine, il generale di corpo d’armata Claudio Berto - grazie a un addestramento unico, strumenti ad alta tecnologia ed elicotteri specializzati nel volo in montagna, anche di notte». Un ruolo esclusivo nell’esercito, quindi. Ma per comprendere bene la loro importanza nella difesa del Paese, è necessario conoscere la posizione dei 10.800 alpini tra le forze armate in Italia.

GLI ALPINI NELL’ESERCITO

Con forze armate si intende l’insieme delle componenti militari della Repubblica, ovvero l’Esercito, l’Aeronautica, la Marina e l’Arma dei Carabinieri. In base ai dati del 2018 sono poco meno di 100 mila i membri dell’Esercito, suddivisi tra fanteria, cavalleria, artiglieria, genio, trasmissioni e trasporti. La fanteria nel corso dei secoli si è specializzata in granatieri, bersaglieri, paracadutisti, lagunari e alpini: questi ultimi sono i soldati capaci di combattere in montagna, ambienti innevati o «artici», come si dice nella Nato. Sono circa il 10 percento dell’esercito e si articolano in due brigate: la Taurinense, presente in Piemonte con una propaggine in Abruzzo, e la Julia, dislocata tra Friuli Venezia Giulia, Veneto e Trentino Alto Adige.

A COSA SERVONO?

In un’epoca di droni e satelliti viene spontaneo chiedersi se abbia senso investire nella fanteria di montagna, che ha legato il suo nome a una prima guerra mondiale terminata da un secolo e che dovrebbe difendere un arco montano che confina con Paesi amici come Francia, Svizzera, Austria e Slovenia. Il dubbio non scalfisce i soldati - di truppa o ufficiali - che rispondono tutti con lo stesso esempio: la fuga di Bin Laden. «Era la persona più ricercata del mondo, ma è riuscito a dileguarsi in groppa a un asino e passare dall’Afghanistan e al Pakistan. Come ha fatto? Grazie alle montagne». Allo stesso quesito i vertici degli alpini replicano con un’analisi più istituzionale, ma il succo è lo stesso. «Negli ultimi 20 anni le principali guerre si sono combattute in zone prevalentemente montuose come i Balcani, o in territori che alternano monti e  deserto come l’Afghanistan», fa notare il  vicecomandante del Comando Truppe Alpine, il generale di divisione Marcello Bellacicco. «Nell’ambiente montano le difficoltà operative aumentano perché il territorio è compartimentato, ovvero frammentato. Serve la capacità di intervenire con piccoli gruppi, autonomi, flessibili.  Gli alpini sono perfetti in questo, e oltretutto leggeri negli equipaggiamenti: è molto più facile trasportare un Lince che un carrarmato».

Sessant’anni, savonese di origine, il generale Bellacicco ha una stretta di mano che sembra una morsa, un ufficio a Bolzano con fucili appesi alle pareti e una finestra che guarda il massiccio del Catinaccio.   Parla degli alpini come dell’amore della vita, ma il romanticismo è tutta un’altra cosa: il generale racconta di combattimenti nelle grotte e lanci con la fune dall’elicottero con la tranquillità di chi affronta la routine di lavoro. «Le operazioni militari in Bosnia e Kossovo ci sembravano complesse, ma erano di profilo molto più basso se comparate a quelle degli ultimi anni in Medio Oriente». Il generale sa bene di cosa parla, perché tra il 2010 e 2011 è stato comandante della Regione Ovest in Afghanistan nell’ambito della missione Isaf della Nato. Significa che comandava settemila uomini di 11 nazioni e dava del tu al super-generale americano David Petraeus. «Diceva sempre che il soldato italiano sa leggere le situazioni», spiega il generale Bellacicco con orgoglio. «Ci sono volte in cui un colpo sparato in più fa degenerare la situazione, altre in cui un colpo in meno fa raffreddare gli animi».

DOVE OPERANO GLI ALPINI

Negli ultimi 20 anni gli alpini hanno consolidato le proprie capacità grazie all’intervento con eserciti alleati in Paesi come Mozambico, Bosnia, Kossovo, Albania, Libano, Libia, Haiti, Repubblica Centrafricana. Tra il 2008 e il 2014 sono stati la specialità dell’esercito più impiegata in Afghanistan; il picco di impegno nel 2010 e 2011, con 3500 alpini in missione ogni semestre. In questo momento non sono impiegati fuori dall’Italia per la prima volta negli ultimi 12 anni, ma si tratta di un normale avvicendamento sulla base di turni di 24 mesi: il turno all’estero di sei mesi è preceduto da sei mesi di preparazione e seguito da 12 mesi di riposo e ripresa degli addestramenti.

Le attività sul territorio italiano sono altrettanto importanti. Negli ultimi anni si è intensificato il cosiddetto dual-use, ovvero l’utilizzo dell’esercito in campo civile e quindi l’integrazione degli alpini con il Dipartimento Protezione civile. All’inizio della primavera del 2019 si contano quasi 1700 alpini nelle strade, soprattutto nelle città del nord-ovest, con presidi in stazioni ferroviarie, aeroporti, e tribunali: è l’operazione “Strade sicure”, che prosegue dal 2008 e utilizza il personale militare a supporto delle forze dell’ordine nel controllo del territorio e nel contrasto alla criminalità. Duecento militari sono inoltre occupati in 23 stazioni sciistiche con compiti di soccorso sulle piste.

Sull’opportunità di impiegare i soldati in occasioni che mettono in secondo piano le competenze militari, il generale Belacicco risponde con diplomazia. «Davanti ai prefetti ripetiamo sempre che il soldato deve essere un valore aggiunto. L’esercito è al servizio dello Stato: un fratello maggiore che deve sempre aiutare istituzioni civili». Il generale è comunque convinto che la sinergia con le altre forze di polizia aumenti l’esperienza operativa dei suoi uomini. «Gli alpini sanno infilarsi in quell’area grigia tra il militare e il poliziotto che consente loro di passare da Kabul alla metropolitana di Roma. In ambito Nato non sono molte le capacità del genere».

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LA FANTERIA DI MONTAGNA NEL MONDO

A prescindere dall’esperienza in campo civile, è proprio la figura del soldato alpino a essere presente in pochi eserciti al mondo. Gli esempi più celebri sono negli Usa la 10th Mountain Division, la “Decima divisione di Montagna”; in Francia gli Chasseurs Alpins, i “cacciatori delle Alpi”, in Germania e Austria i Gebirgsjäger, “i cacciatori di montagna”. In Romania esistono poi i Vânători de munte e in Spagna i Cazadores de Montaña. Formazioni simili sono presenti negli eserciti di Regno Unito, Svizzera, Polonia, Russia, Cile, Argentina, Israele, India e Pakistan.

In Italia gli alpini esistono dal 1872, ma pur mantenendo la tradizione il loro scheletro è cambiato nel 2005 con il passaggio dall’esercito di leva a quello professionale. Dopo più di un secolo si è infatti interrotto un ciclo che ha accomunato i figli alle esperienze di genitori, nonni e bisnonni. «L’esercito di leva era un esercito di milizia, composto dagli abitanti delle montagne in cui era stanziato», spiega Virgilio Ilari, presidente della Società Italiana di Storia Militare. «Questo consentiva di avere soldati motivati a combattere per un territorio  che conoscevano alla perfezione, con truppe molto coese. Mentre gli altri militari giravano l’Italia, tra gli alpini poteva infatti capitare che ci fossero persone dello stesso villaggio».

GLI ALPINI DOPO LA RIFORMA DEL 2005

Con la fine della guerra fredda non è stato più necessario avere così tanti militari in tempo di pace, e gli eserciti - più o meno in tutti i Paesi europei - si sono ridotti a un terzo. La riorganizzazione delle forze armate italiane ha coinvolto in particolar modo gli alpini: mentre prima si cercavano montanari da rendere soldati, ora dei soldati vengono specializzati come militari di montagna. In un Paese come l’Italia con grandi differenze di occupazione tra il nord e il sud, il risultato è che il 55 percento del personale di truppa dell’esercito ora proviene da tre regioni: Sicilia, Campania e Puglia.

Nelle truppe alpine è un po’ più diffusa la presenza di personale del centro e del nord, ma la percentuale di soldati di quelle tre regioni raggiunge il 48 percento. L’opinione diffusa tra i soldati, a prescindere dalle stellette, è univoca: «All’inizio non è stato facile». Basti pensare alla diffidenza e alle difficoltà linguistiche con cui i friulani accoglievano i colleghi campani, ma anche al disagio climatico dei siciliani che si trovavano catapultati sul passo del Brennero. «Mese dopo mese – assicurano però oggi gli alpini, a Bolzano come ad Aosta - la situazione è migliorata».

Oggi nel reggimento di Cuneo 180 dei circa 700 soldati provengono dalla Sardegna.  Nel Comune di Venzone (UD) l’ottavo reggimento alpino è così vicino che ormai nei borghi si sente parlare in siciliano. E non sono rari i casi di militari del sud che preferiscono restare al nord. È la storia di Lazzaro Cutrone, classe 1983, pugliese di Bari con una quindicina di anni passati a Bolzano. «Ero affascinato dalla divisa di mio padre e mio zio. Feci domanda nell’esercito perché volevo viaggiare e fare nuove esperienze», racconta. «Arrivato in Alto Adige ero curioso di conoscere usi e costumi diversi. Ora mi piace vivere qua, per questo voglio comprare casa a Merano».

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IL CORSO DI MOUNTAIN WARFARE

L’accento meridionale è una costante anche tra gli istruttori del Centro di Addestramento Alpino di Aosta, che organizza i corsi di Mountain Warfare destinati ai militari più dotati fisicamente. Il programma di studi approfondisce le tecniche alpinistiche e di combattimento: gli allievi devono saper attraversare crepacci, scalare su roccia e su ghiaccio, accendere fuochi senza fiammiferi, fabbricare ciaspole con i rami, nuotare in acque gelide, costruire guadi e teleferiche, fare canyoning, studiare valanghe, operare con i visori notturni. Ma anche sciare e scalare perfettamente con uno zaino da trenta chili sulle spalle e un fucile a tracolla. E ovviamente scavare le trune, i bivacchi di emergenza nella neve.

«Perché in ambiente montano il potere della tecnologia si abbatte», spiega il capitano Karim Bensellam, 36 anni, ufficiale addetto al Battaglione Aosta con origini marocchine da parte di padre. «La minaccia ormai è asimmetrica: non è tanto tra eserciti ed eserciti, ma tra eserciti e terroristi. E visto che i secondi hanno meno mezzi tecnologici, cercano di trascinare i militari in zone più insidiose. Come le montagne». La formazione di una fanteria specializzata è quindi necessaria, perché gli altri settori dell’esercito si troverebbero in difficoltà a intervenire ad alta quota: gelo, nebbia e vento possono infatti mandare i tilt gli strumenti dell’aviazione e deviare i proiettili dell’artiglieria. Karim Bensellam ne sa qualcosa, e non solo per le due missioni cui ha partecipato in Afghanistan. Agli inizi del decennio è stato tra i primi allievi al corso di Mountain Warfare, quando le notti da passare in mezzo alla neve erano addirittura sei. «Ma il freddo forgia – ci scherza su – È un allenamento psicofisico: dopo un’esperienza del genere sei preparato anche al caldo dell’Africa». Non è una battuta: la capacità di adattamento fa parte della natura degli alpini, che a fine ‘800 ebbero il battesimo del fuoco nella campagna di Eritrea e Somalia.

Il capitano Bensellam parla dal suo ufficio nel Centro di Addestramento di Aosta, dove la giornata è scandita dalla vita di caserma: l’alzabandiera, le esercitazioni, i pranzi in mensa. Subito dopo il lavoro i soldati si abbandonano alle chiacchiere come tutti i colleghi, spaziando tra armi, elmetti, figli, mogli, cani, motoseghe, pelli di foca, formaggi, automobili, calcio. C’è l’ufficiale con undici missioni alle spalle che passa il tempo libero a fare gli scubidù, intrecci con le cordicelle che nell’immaginario si addicono alle adolescenti («mi rilassa», ripete ai commilitoni che lo prendono in giro). Oppure il primo luogotenente friulano a un passo dalla pensione, che discute di casse di vino. Il paracadutista delle forze speciali che vive con gli occhiali da sole, come i soldati dei film. E le donne che hanno scelto l’esercito a 24 anni, quando la vita sembrava portarle in un’altra direzione. Come la prima caporalmaggiore Enrica Basso, che si è arruolata dopo la laurea in scienza della comunicazione. «Niente di strano: al liceo avevo già deciso di entrare nell’esercito», racconta. «E poi da bambina mettevo il cappello da alpino di mio nonno. Sapevo che era il mio destino». 

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(Meridiani, speciale Alpini, maggio 2019)