QUEL CHE RESTA DEL KOLCHOZ

 

Nell'Azerbaijan del boom economico, in un villaggio ai piedi del Caucaso nulla è cambiato dai tempi dell'Unione Sovietica. Campi, animali e trattori sono collettivi. Latte, carne e verdure vengono distribuiti. I giovani che sognano jeep e computer lasciano il paese, ma i più anziani non si danno per vinti. «Qui l'Urss esiste ancora».

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Mihail Sheglof ha 64 anni, gli occhi celesti e un sorriso di denti d’oro. Da quando è in pensione pascola il gregge tutti i giorni, sino al tramonto. Raduna le pecore con un fischio appena le rocce innevate all’orizzonte diventano rosa: sono le vette del Grande Caucaso, la catena montuosa al confine tra l’Azerbaijan e la provincia russa del Daghestan.

Siamo a Ivanovka, una distesa di case basse nella campagna di Ismaily, a 180 chilometri da Baku. Solo la strada principale è asfaltata, il resto è una griglia di sentieri e steccati che separano i cortili. «La mia famiglia abita qui da sei generazioni», sorride Mihail indicando una casa di legno tinta di bianco. I suoi avi arrivarono negli anni trenta dell’Ottocento e fondarono il villaggio: erano in fuga dalla Russia perché di religione molocana, una setta cristiana precedente agi ortodossi ma da questi considerata eretica.

Con la caduta dell’impero russo questo pezzo di terra divenne Unione Sovietica; quando l’Urss si dissolse Ivanovka ottenne il permesso dal primo presidente dell’Azerbaijan indipendente - Heydar Aliyev, padre dell’attuale presidente Ilham - di conservare lo status economico di fattoria collettiva. All’ingresso del paese è rimasto il cartello in cirillico con la scritta “kolchoz Ivanovka”, mentre gli abitanti hanno continuato la tradizione del Novecento socialista, con terre, trattori e animali comuni.

I campi di Ivanovka

I campi di Ivanovka

Lida Prokofiev è nata a Ivanovka nel 1954 e da giovane è stata operaia nella segheria di Ismaily. Con la caduta dell’Urss ha scelto di ritornare. «Qui la vita è eccellente», dice Lida, fazzoletto a fiori sulla testa e unghie sporche di terra. «Certo, si fatica: mi sveglio ogni mattina prima che sorge il sole. Mungo le mie mucche e poi vado al lavoro nei vigneti». Su 3500 residenti di Ivanovka sono in 2000 a lavorare per il kolchoz: le attività principali sono la produzione e la vendita di uva da vino - bevanda che in Azerbaijan ha una tradizione millenaria – le coltivazioni di orzo e patate, l’allevamento di vacche e maiali.

Gli stipendi mensili variano dai 50Azn di un panificatore (circa 50 euro) ai 150Azn di un contadino. «La cifra è sufficiente per vivere perché abbiamo diritto a parte del raccolto, a pane, carne e latte», aggiunge Lida. «E dalle due del pomeriggio possiamo dedicarci agli orti e ai nostri animali privati. Arrotondiamo vendendo uova, salsicce, miele e ortaggi».

Tanya Sadikhova vive di fronte a Lida insieme al marito John, un ingegnere scozzese in pensione. Nel 2008 hanno trasformato la casa di campagna in una guest house. «La vita collettiva è migliore di quella in città», assicura Tanya mentre affetta il lardo che le ha regalato il vicino di casa. «Gli abitanti sono molto uniti, in occasione di feste o lutti chiunque può contare su centinaia di amici». Lida annuisce con la testa, ma torna subito seria: «Purtroppo non è più come una volta. Quando c’era l’Urss il kolchoz di Ivanovka era un esempio di produttività. Ora il mondo è andato avanti, mentre Ivanovka è rimasta la stessa di quarant’anni fa».

Un trattorista del kolkhoz

Un trattorista del kolkhoz

Basta fare due passi in paese per capire a cosa si riferisce Lida: i trattori sono arrugginiti, i macchinari per la semina antiquati, i negozi un miraggio. Nel paese ci sono poche botteghe di alimentari che vendono anche scarpe e zappe, una pasticceria, un barbiere, una merceria. C’è anche un bancomat che non funziona e un magazzino di vestiti sempre chiuso.

«Gli anziani stanno bene perché nel resto dell’Azerbaijan farebbero la fame» - continua Lida – Ma per i giovani questa vita è troppo povera. Una volta i ragazzi andavano in Russia per guadagnare bene qualche anno e costruirsi la casa qui. Ma ormai partono e non tornano più».

Da dieci anni l’Azerbaijan vive il boom economico grazie al gas e al petrolio che hanno reso Baku un cantiere di grattacieli, hotel, autostrade, centri commerciali. E la speranza di diventare ricchi affascina sempre di più i giovani azeri. Dei tre caffè di Ivanovka il più frequentato è uno scantinato, illuminato con la luce giallastra di lampadine che penzolano dal soffitto. A metà pomeriggio ci sono tre clienti, tutti di origine russa. «A Ivanovka nessuno ha soldi da spendere», spiega Orxan, che conosce qualche parola d’inglese perché lavora come tecnico dei computer. Orxan ha 23 anni e su Facebook celebra le gesta del Chelsea. Sogna l’Inghilterra, dove vorrebbe guadagnare abbastanza per vivere a Baku con la moglie e il figlio.

Dal barbiere

Dal barbiere

Alla cassa di un negozietto c’è Kugaddin Babayev, che ha 17 anni e l’idea di trasferirsi in Russia. Mentre ascolta le canzoni di Enrique Iglesias parla con i soliti clienti. Ivan, un omone con i baffi vestito con il giubbotto militare, o il meccanico Back, cui offre un bicchierino di distillato. Arriva anche Mihail, il pastore dagli occhi celesti e i denti d’oro. Dà uno sguardo agli scaffali mezzi vuoti, compra un pacchetto di caramelle e una bottiglia di vodka.

I molocani non bevono alcol (i russi li chiamano infatti “bevitori di latte”) ma a Ivanovka sono in molti a trasgredire la regola. Il piano terra della casa di Mihail è una dispensa con sacchi di patate, verdure sott’aceto e marmellate. Le camere da letto e la cucina sono al primo piano. «Ceno da solo ogni sera», dice Mihail mentre mette la zuppa sul fuoco. «Mia moglie Valentina fa le pulizie nell’ambulatorio del paese. Torna sempre tardi».

Ceniamo con un pasto molocano: brodo con pollo, panna acida e cetrioli sottaceto, prosciutto, pomodori bolliti. La tappezzeria rosa è intonata con la moquette che arriva ovunque, anche in bagno. Sul divano ci sono le parole crociate e una coperta a fiori, sul tavolino un computer portatile. «Lo usiamo per chiamare nostro figlio Sin, che lavora in Ucraina». La camera di Sin è ancora arredata con i libri di scuola e le fotografie di quando era un soldato, alla fine degli anni Ottanta. «I giovani vanno via perché vogliono case grandi e macchine tedesche - sospira Mihail – Li capisco, non si può restare poveri per sempre. Ma io amo il kolchoz perché qui si può ancora vivere come una volta. Io non ho bisogno di essere ricco, mi basta la certezza di avere da mangiare e un posto caldo dove dormire. Ivanovka mi piace per questo: mi fa sentire al sicuro, perché qui l’Unione Sovietica esiste ancora».

(Il Venerdì di Repubblica, 28 agosto 2015)

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