Verdeggia, un paese e sei abitanti

I campi di ortaggi, a Verdeggia, sono un affare di famiglia. La pulizia delle viuzze pure, e così la cura dei fiori. Pure l’unico bar del paese, pieno d’agosto ma deserto il resto dell’anno, è un affare di famiglia. Perché a Verdeggia, un gruppetto di case al confine con la Francia, ai piedi del Monte Saccarello, abita solo la famiglia Lanteri. Sei gli storici abitanti: il nonno e la nonna, lo zio, il papà e la mamma, il loro figlio undicenne.

Il paese di Verdeggia

Il paese di Verdeggia

Sono storie di montagna quelle dell’alta Valle Argentina, bella e impervia come le Alpi liguri dell’imperiese, ma lontana da Genova che neanche la Svizzera. A Verdeggia l’aria è frizzante, i metri sul livello del mare sono 1100.  Silvano Lanteri, il nonno, ha 72 anni e ha trascorso la vita nel paese. Come tutti quelli della sua epoca, lavorava nelle vicine cave di ardesia di Realdo. «Ma l’ardesia era praticamente finita, è stata una vitaccia», racconta. Sua moglie Carla, la nonna, ha 70 anni e una vita da casalinga alle spalle.  «Quando ero ragazzina non avevo nemmeno idea di dove fosse il Monte Saccarello», ricorda. «Poi sono venuta a Verdeggia per lavoro, tenevo dei bambini. Ho conosciuto Silvano e siamo rimasti a vivere qui, proprio sotto il Monte».

Silvano Lanteri, il "nonno"

Silvano Lanteri, il "nonno"

Daniele Lanteri con la moglie Sara e il figlio

Daniele Lanteri con la moglie Sara e il figlio

Nel 1978 è nato Daniele. All’epoca il paese era vivo: di abitanti, coltivazioni e animali. Sino agli anni ’80 a Verdeggia c’era addirittura una colonia estiva per bambini gestita dalle suore; sette anni fa esisteva ancora l’hotel dove Daniele Lanteri lavorava. Poi il nulla.  «E così ho comprato all’asta dal Comune di Triora il rifugio all’ ingresso del paese e l’ho trasformato in un bar ristorante», racconta Daniele. «E pensare che un tempo era la scuola elementare di Verdeggia, che ho frequentato sino all’anno della sua chiusura nel 1988. In classe eravamo in tre, c’era anche mio fratello maggiore».

L'Alta Valle Argentina

L'Alta Valle Argentina

A parte il periodo estivo e i fine settimana, come potenziali clienti del bar Daniele ha solo i suoi genitori, suo zio Italo e sua moglie. E magari chi torna al paese per dare un’occhiata alla casa e all’orto. «Siamo abituati a essere sempre meno», dice Daniele un po’ sconsolato «E’ il destino della montagna e del suo spopolamento». La chiesa di Verdeggia ne è un esempio. Ancora dieci anni fa il parroco Don Federico arrivava anche di inverno, dietro allo spazzaneve, e diceva la messa solo per la signora Carla. Ora le messe si fanno a rotazione: a Verdeggia è in programma domenica 17 settembre, poi bisogna aspettare il primo novembre.

Verdeggia

Verdeggia

Il signor Romano Della Torre, presidente della Pro Loco di Verdeggia, torna spesso nel paese della sua famiglia e anima il periodo estivo con celebrazioni patronali, sagre, nottate con canti di montagna e orchestre che fanno musica da osteria. Quando l'estate finisce, bisogna attendere quella dopo. «Pure nostro figlio durante il periodo scolastico vive a Riva ligure, dagli altri nonni», raccontano Daniele Lanteri e la moglie Sara. «Per fortuna quest’anno un signore è venuto a vivere qui a Verdeggia, con il cane» raccontano. «Almeno porta un po’ di movimento».

Di Gavi in Gavi, la kermesse del vino bianco piemontese

TRA cantine aperte e passeggiate tra i filari, quattro giovani chef stellati e uno d’eccezione — Carlo Cracco — il protagonista assoluto sarà comunque lui: il “Cortese di Gavi”. Domenica 27 agosto la cittadina al confine con la Liguria ospita la quinta edizione della manifestazione “Di Gavi in Gavi”, appuntamento enogastronomico organizzato dal consorzio che promuove il vino bianco piemontese Docg dal 1998. L’obiettivo è «svelare il nostro territorio », spiega il presidente del Consorzio Tutela del Gavi, Maurizio Montobbio. «Vogliamo proporre Gavi come meta del gusto italiano ».

fonte: Consorzio Gavi

fonte: Consorzio Gavi

ll “Gavi” è storicamente presente sulle tavole liguri, ma ormai nella cittadina tra le colline del Basso Piemonte ben più di un occhio è rivolto all’estero. Bastano pochi dati: negli ultimi dieci anni gli ettari coltivati sono aumentati del 41 percento, da 1.076 a 1.510, mentre la produzione di vino è passata dagli 8 milioni di bottiglie del 2015 ai 13 milioni nel 2016 (di cui più dell’85 per cento dedicato all’export). E allora ecco spiegato il tema di questa edizione, intitolata “Destinazione Gavi”: mostrare in una giornata quanto il territorio del basso alessandrino sappia offrire dal punto di vista enogastronomico e culturale (il programma completo è sul sito www.consorziogavi.com).

fonte: Consorzio Gavi

fonte: Consorzio Gavi

“Di Gavi in Gavi” partirà domenica alle 9.30 con la Gavilonga, una passeggiata tra le vigne e le cantine di Monterotondo dove nasce questo vino prodotto interamente con uva cortese. Dalle 15.30 alle 19.30 visita delle Corti aperte, sei cortili privati di Gavi per l’occasione accessibili al pubblico dove i sommelier offriranno le etichette di Gavi abbinati a prodotti tipici degli undici comuni della Denominazione: tra questi la testa in cassetta, gli amaretti, la torta di riso, la focaccia, la farinata, i canestrelli e il cioccolato di Novi, i formaggi, i ravioli.

Alle 16 e alle 18.30 nella Corte delle Chiacchiere si esibiranno ai fornelli quattro giovani chef stellati: Christian Milone del Ristorante Zappatori di Pinerolo (To); Francesco Oberto del Ristorante Da Francesco a Cherasco (Cn); Jumpei Kuroda de I Due Buoi di Alessandria e infine Flavio Costa del Ristorante 21.9 a Piobesi d’Alba (Cn). Ingrediente principale della loro ricetta sarà una delle Dop regionali gemellate con il Gavi: la robiola di Roccaverano, il riso di Baraggia Biellese e Vercellese, il prosciutto crudo di Cuneo, la tinca gobba dorata del Pianalto di Poirino e il formaggio murazzano.

Ospite della manifestazione sarà Carlo Cracco, lo chef vicentino che dal 2011 al 2017 ha condotto il programma televisivo Masterchef Italia e che anche in questo caso vestirà il ruolo di giudice: alle 17.30 sul palco della Chiesa di San Giacomo sarà infatti lui decretare il miglior abbinamento tra il Gavi Docg e una delle undici ricette proposte dai Comuni della Denominazione. La serata della domenica vedrà cantine e produttori aprire le loro porte in notturna per festeggiare la vendemmia in arrivo con degustazioni e concerti.

Di Gavi in Gavi avrà un’anticipazione venerdì e sabato. Si comincia al tramonto di venerdì 25 agosto nell’area archeologica di Libarna, a Serravalle Scrivia, con la narrazione archeologica di Archeoricette; alle 21 segue la Conferenza spettacolo con Steve Della Casa ed Efisio Mulas di Hollywood Party (Rai Radio3), che commenteranno i Kolossal italiani dedicati all’Antica Roma.
Sabato sera, dalle 19, tocca a “Ravioli sotto le stelle”: la ricetta del raviolo gaviese, custodita dall’Ordine Obertengo dei Cavalieri del Raviolo e del Gavi, sarà interpretata dalla Pro Loco di Gavi e servita sulle tavole allestite tra le vie del borgo. Alle 22 concerto di Paolo Bonfanti nella Corte delle Chiacchiere.

 

 

Crevari Invade, 25 anni di musica rock e focaccette

Maggio 1992, Crevari. Due amici, Giorgio e Maurizio, e una  chitarra. «Cercavo di imparare una canzone degli Scorpions», racconta Giorgio Bana, 59 anni, portuale in pensione. «A un certo punto mi viene un’idea: ma perché non facciamo una festa di paese, dove invitiamo un po’ di gruppi rock? Ho già il nome: Crevari Invade». Venticinque anni dopo l’idea dei due amici di invadere Genova non si è mai realizzata, ma in compenso è Crevari a essere invasa ogni anno da migliaia di persone.

Foto da Fb, Crevari Invade 

Foto da Fb, Crevari Invade 

Venerdì 23, sabato 24 e domenica 25 giugno c’è la venticinquesima edizione della manifestazione più celebre del paesino arroccato tra Voltri e Vesima. Musica rock, gastronomia locale, volontariato, beneficenza: gli ingredienti sono sempre gli stessi.  La festa è in località Campenave, in via Superiore dell’Olba 35, nella sede dell’Anpi di Crevari che dal 1992 mette a disposizione i propri spazi. Cinquanta i volontari che arrivano dal paese e dintorni, compresi Vesima, Voltri e la Val Cerusa. «Per Crevari Invade scendono in campo gli abitanti, spontaneamente», racconta uno degli organizzatori, Giorgio Girola, ingegnere navale di 36 anni. «Ognuno fa la sua parte: ci sono bambini di dieci anni e anziani ultraottantenni».

Foto da Facebook Crevari Invade

Foto da Facebook Crevari Invade

Le cucine aprono ogni giorno alle 20, con il cibo da sagra classico come braciole, patatine fritte, hamburger e salsicce. L’attrazione vera sono però le focaccette di Crevari, delizia locale a base di farina, acqua e patate ripiena con combinazioni variabili di prosciutto, salame, stracchino, gorgonzola o nutella. Crevari Invade è una delle poche occasioni annuali per assaggiarle: a parte sporadiche manifestazioni in cui sono presenti i cuochi crevaresi – come la Festa dell’Unità  a Genova – bisogna altrimenti aspettare le celebrazioni del 25 aprile  o del primo maggio a Crevari. «Da quest’anno raddoppiamo la cassa e il punto di distribuzione di focaccette per evitare le solite code», assicura Giorgio Girola. «La spesa è già fatta: 450 chili di farina e 350 chili di patate».

Venerdì 23 si esibiscono gli AfterBeat, i White Brothers, band del Tigullio con sonorità da Texas e blues «arrogante», e  i Wrong Side, gruppo genovese che suona uno stile che definisce “Punkalypso”. Sabato 24 tocca al cantautore Federico Bottino, ai Clan Retrò e agli intramontabili SconVoltri. Domenica 25 sarà la volta di ABNorme, Next Station, gruppo savonese amante del reggae, e gli Stone Age. Campenave si raggiunge con una passeggiata di dieci minuti da Crevari oppure in auto dalla Val Cerusa (info sul sito www.crevarinvade.it.). Venerdì e sabato dalle 19, ogni mezz’ora, ci sarà una navetta gratuita dal capolinea dell’Uno a Crevari.

L’incasso di Crevari Invade sarà come da tradizione devoluto in beneficenza. Tra le ultime donazioni l’acquisto di macchinari sanitari per l’Ospedale Evangelico di Voltri, un ecografo per il Centro Alcologico Regionale e il sostegno ad associazioni che supportano il Gaslini.

Viaggio in Ecuador, dove e quando andare

E’ perfetto per un viaggio di due settimane l’Ecuador, uno dei Paesi più piccoli e festaioli del Sudamerica. Terra di vulcani e piranha incastrata tra la giungla amazzonica e l’Oceano Pacifico, la sua porta d’ingresso per chi lo raggiunge via terra è Tulcan, il punto di confine con la Colombia. Andare in Ecuador è un viaggio pericoloso? Per i colombiani sì, è senza dubbio “muy peligroso”. Ma in fin dei conti per gli ecuadoriani è la Colombia a essere “muy peligrosa”, ed è difficile dar loro torto. In linea di massima non c’è nulla da temere nelle zone di montagna e di campagna,  ma bisogna comunque ricordare che nel paese girano molte armi e le aggressioni a scopo di rapina avvengono: per cui in città meglio non sfoggiare cellulari e macchine fotografiche, anelli e oggetti di lusso non necessari.

Il paese, dunque. Otavalo, cittadina ecuadoriana a tre ore di bus dal confine, vanta uno dei principali mercati del Sud America, il mercato dei poncho. Gli indios affollano le vie del centro con cappelli da cowboy e capigliature brune avvolte nelle trecce, vesti di lana variopinta e bebè imbragati sulle spalle.  Turisticamente la città mette quasi in ombra la vicina Quito, seconda capitale più alta del mondo con i suoi 2850 metri d’altitudine. Il centro storico coloniale è ben restaurato e piacevole da visitare, ma quando tramonta il sole la città si svuota velocemente e la sensazione di pericolo aumenta.

Una funivia che buca nuvole e inquinamento porta sul vulcano Pichincha (4600 metri sul livello del mare), ben sopra ai prati dei monti invasi dalle favelas. A mezz’ora dalla città c’è “La Mitad del mundo”, una delle attrazioni principali di tutto il Paese. Una riga gialla avverte che lì passa l’Equatore. Ovunque si vada dopo Quito si scende. Per raggiungere l’oceano si vede un Ecuador molto più polveroso, trasandato e povero.  In ogni villaggio gli abitanti rincorrono i bus per vendere “pan di jucca” o “agua hielada”. Portoviejo, capoluogo del Manabi, è una città afosa con motociclette impazzite per le strade e fili della luce appoggiati ai pali. Manta, principale porto del paese, ha una miriade di ristoranti sull’Oceano e ben pochi alberghi economici senza tariffa a ore. Meglio la costa a sud, selvaggia e deserta, con chilometri di spiagge e vegetazione bassa. Tra Puerto Cayo, Puerto Lopez e Montanita la scelta per fare baldoria non manca, ma la spiaggia più bella di tutte è senza dubbio Playa de los Frailes, orgoglio nazionale immerso nella natura.

Per gli ecuadoriani è imperdibile una tappa a Guyaquil, la tentacolare, sporca e famigerata Guyaquil.  “La Napoli dell’Ecuador”, capoluogo del Guayas e prima città del Paese con i suoi quattro milioni di abitanti. La maggior parte degli ecuadoriani emigrati in Europa arriva proprio da qui, e guarda con nostalgia all’amata metropoli dai grattacieli scintillanti e le guardie private che proteggono i negozi del centro, con suv giapponesiche sorpassano Chevrolet anni ’80 e autobus scassati da milioni di chilometri che sbuffano fumo nero. Una città moderna, frenetica, sovraffollata, circondata da una periferia povera e pericolosa invasa da case di lamiera, spazzatura e cani randagi. Gli abitanti sostengono orgogliosamente che Guayaquil sia bella. Le case colorate del centro storico sono effettivamente graziose, così come i viali di alberi equatoriali che ornano una città resa già maestosa da quel fiume di acqua grigia che l’attraversa, il Guayas. Però se si chiedesse a un milione di persone di pensare a una città bella, a tutti verrebbe in mente qualcosa tipo Siena o Venezia, magari Roma o Istanbul.  Certamente non Guyaquil. Che, giusto per la cronaca, nel 2005 vantava 50 rapine a mano armata al giorno (ora però va meglio, pare).

Per trovare il paesaggio più spettacoli del Paese bisogna risalire ad alta quota, tra i pascoli di lama e gli indios che zappano la terra. In mezzo alle montagne a 3900 metri d’altezza si nasconde la “Laguna di Quilotoa”, un lago turchese dai riflessi smeraldo nascosto nel cratere di un vulcano spento. La popolazione quechua che ne abita le pendici e affitta stanze gelide ai turisti racconta sia senza fondo. E’ quasi sicuramente una bugia, ma è bello crederlo.

L'ultima comune sovietica, il kolchoz in mostra alla Feltrinelli di Genova

Venerdì 10 febbraio alle 18 nella Libreria Feltrinelli di Genova, inaugurazione della mostra-reportage “Quel che resta del kolchoz”. 

Un viaggio del giornalista Massimiliano Salvo nell’ultima comune sovietica dell’Azerbaijan. 
La mostra è organizzata da Neos-Giornalisti di viaggio associati, di cui Massimiliano Salvo – 30 anni, giornalista collaboratore di Repubblica - è membro. Sarà presentata da Pietro Tarallo, giornalista e scrittore di viaggio, presidente di Neos.  

La mostra resterà esposta nello spazio eventi della Feltrinelli (al quinto piano) sino a domenica 5 marzo negli orari di apertura della libreria. L’ingresso è gratuito.

Il reportage racconta la storia di Ivanovka, un villaggio dell’Azerbaijan che vive ancora come un kolchoz, con campi, animali e trattori collettivi. Ma mentre nel resto del Paese c’è il boom economico e i giovani sognano jeep e computer, i più anziani non si danno per vinti: «Qui l’Urss esiste ancora».

Il paese fu fondato a metà 1800 dai russi cacciati dallo zar Nicola I perché di religione molocana, una  “corrente” cristiana ritenuta eretica.  Dopo il crollo dell’Urss Ivanovka è rimasta un kolchoz e grazie all’appoggio dell’allora presidente dell’Azerbaijan, Heydar Aliyev, ha potuto mantenere questo status economico. Campi, animali, granai e pagliai sono comuni; le macchine del villaggio sono quelle dell’epoca; nei pochissimi negozi le merci sono ridotte all’osso.  Nonostante i più anziani siano contenti di questo tipo di vita – che consente a tutti di sopravvivere dignitosamente – Ivanovka è destinata a scomparire e negli ultimi anni la situazione sta peggiorando velocemente. 

La popolazione accusa gli amministratori del kolchoz di vendere le terre comuni ai privati, approfittando della mancanza di documenti che attribuiscano i campi al villaggio. Ma soprattutto, i più giovani non vogliono fare una vita da contadini poveri in un Paese, l’Azerbaijan, che cresce in modo vertiginoso da dieci anni. 

Già da un po’ di anni i ragazzi partono per la Russia per lavorare come contadini qualche stagione e ritornare in Azerbaijan con un po’ di soldi da parte.  Ma ormai anziché rientrare nel villaggio restano in Russia o si trasferiscono a Baku.

Gay in viaggio, dall'Iran a Cuba

E’ un mondo che a San Francisco tinge di arcobaleno le strisce pedonali e in Iran condanna a morte l’amore di due uomini. In Turchia va verso l’intolleranza, in Europa e negli Usa crea paradisi gay friendly. La voglia di viaggiare però, è uguale per tutti.  “Gay nel mondo” è il prossimo incontro organizzato da Arcigay Genova per il ciclo “Storie di vita omosessuale”. L’appuntamento è giovedì 12 gennaio alle 17.45 nella Sala Camino di Palazzo Ducale, in piazza Matteotti, con le testimonianze di chi viaggia e ha il punto di vista della comunità  LGBTQ: Laura Guglielmi, direttrice di Mentelocale.it; Pietro Tarallo, giornalista e scrittore; Massimo Bisceglie, avvocato. Ma l’invito è rivolto a chiunque voglia condividere la propria esperienza.

New York, meta gay friendly

New York, meta gay friendly

«I gay sono da sempre una categoria sociale che viaggia molto», assicura Pietro Tarallo, che nella sua vita da giramondo ha visitato davvero gran parte del pianeta scrivendo guide turistiche su una cinquantina di Paesi.  «Nel Settecento i grandi viaggiatori europei omosessuali si spingevano sino al meridione dell’Italia, pensiamo a Goethe. Ma all’epoca accadeva tutto sottotraccia, ovviamente. Ora invece ci sono città o interi paesi diventati mete gay friendly».  Come la Spagna, con i suoi raduni oceanici a Sitges e Gran Canaria. Oppure Berlino, l’Olanda, la Danimarca, la Scandinavia, la Grecia. E poi New York, la Florida e la California. «In Asia è un caso a sé la Thailandia, che ha una lunga tradizione nell’accettare anche travestiti e transessuali».

Trinidad, a Cuba. Dopo le persecuzioni del passato, si dimostra sempre più aperta verso il mondo LGBTQ

Trinidad, a Cuba. Dopo le persecuzioni del passato, si dimostra sempre più aperta verso il mondo LGBTQ

E’ un mondo tutto da raccontare, quello degli omosessuali in viaggio. Laura Guglielmi porterà le ultime news da Castro Street a San Francisco, patria di una comunità LGBTQ estremamente libera. Pietro Tarallo e Massimo Bisceglie parleranno della loro esperienza a Cuba, dove nel primo ventennio del regime castrista per gli omosessuali c’era l’internamento in campi di rieducazione. Una politica appoggiata anche da Che Guevara. «E invece adesso l’omosessualità è sempre più accettata», racconta Tarallo. «Addirittura a Santa Clara c’è una sorta festival di transessuali con tanto di sfilate, musica e bandiere arcobaleno. Questo grazie alla figlia di Raul Castro che da tempo si batte per i diritti». 

Cappadocia, in Turchia. ll paese ha le istituzioni laiche, ma si dimostra sempre più intollerante

Cappadocia, in Turchia. ll paese ha le istituzioni laiche, ma si dimostra sempre più intollerante

Ma se da una parte ci sono Paesi del mondo che consentono i matrimoni tra persone dello stesso sesso, in altri basta dichiararsi omosessuale o transgender per finire in carcere. «Bisogna essere molto accorti quando si viaggia nei Paesi musulmani in generale», avverte Tarallo. «Sicuramente in tutto il Medio Oriente, in Egitto e in Turchia, purtroppo sempre meno tollerante. E poi in Russia e in tutta l’Africa, ad eccezione del Sudafrica». Merita un capitolo a parte l’Iran, dove basta poco per rischiare la pena di morte. «L’importante è stare attenti al proprio comportamento», spiega Tarallo, che è tornato in Iran nel 2015 dopo 44 anni. «Ma è un paese meraviglioso, che merita di essere visitato».

Pentema, il paese di sette abitanti che si salva diventando un presepe

E’ una storia che va avanti da 22 anni, più forte della neve e delle frane che negli anni hanno tormentato questo paesino dell’Appennino ligure a un’ora e venti di curve da Genova. Era il 1994, e alla messa di Natale nella chiesa di Pentema le persone si contavano sulle dita di una mano. «Don Pietro ci fece notare che se si andava avanti così, di lì a poco Pentema sarebbe morta», racconta Angelo Carpignano, genovese che passa gran parte dell’anno nel borgo di poche case accanto al paese. «Bisognava inventarsi qualcosa al più presto». Il Natale successivo nasceva un presepe che riportava Pentema alla fine dell’Ottocento, con i mestieri di allora ricreati tra le sue stradine, sotto gli archi, nelle aie delle abitazioni, nelle stanze delle antiche case di pietra.

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Da allora i volontari del circolo “Amici di Pentema” di cui Carpignano è presidente ogni autunno posizionano nel borgo decine di statue a grandezza naturale: manichini vestiti con gli indumenti trovati nei guardaroba dei più anziani e le facce modellate dal pongo, per avere le sembianze di pentemini davvero esistiti. Anno dopo anno ai visitatori genovesi si sono aggiunti appassionati in arrivo dalle regioni vicine, in particolare Piemonte, Lombardia e Toscana. «Il record è stato fatto quando Don Pietro e alcuni pentemini furono invitati a Domenica In», ricorda Angelo Carpignano. «Quell’inverno arrivarono diciannovemila persone da tutto il Nord Italia. Le strade esplodevano di gente, ce n’era fin troppa. Ma che gioia».

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A raggiungere questo paesino di sette abitanti nascosto tra i monti ogni anno sono almeno in settemila, con fiammate verso l’alto negli inverni di bel tempo. Un successo strepitoso, tanto da spingere nel 2015 il giardiniere genovese Stefano Fossa a lasciare la sua casa nella periferia di Genova e rilevare la gestione della Locanda al Pettirosso, l’unica del borgo. Stefano è così diventato il pentemino di gran lunga più giovane con i suoi 51 anni, e da allora ha preso mucche, capre e galline. Durante la settimana pascola gli animali, raccoglie la legna, vende le uova e il latte che munge, mentre il weekend si trasforma in ristoratore grazie all’aiuto del nipote ai fornelli. «La forza del presepe è tenere in vita il paese nei mesi prima e dopo Natale, quando non verrebbe più nessuno»,  spiega Stefano Fossa davanti a un bicchiere di vino.  «C’è gente a ottobre e novembre, perché il presepe deve essere allestito. E pure a febbraio e marzo, quando i manichini devono essere rimessi nei magazzini».

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L’edizione 2016 del presepe sarà inaugurata l’8 dicembre alle 14.30 con la musica di cornamuse e fisarmoniche, accompagnata da canti natalizi danze popolari e la cerimonia del Confuego; gli appuntamenti proseguiranno sino a metà gennaio, con visite guidate, concerti e letture.  Tra le quaranta scene di quest’anno la novità è la “strafia”, una teleferica che i contadini utilizzavano per trasportare legna, fieno e carbone. Quest’anno il presepe è stato allestito da venticinque volontari che hanno dedicato parecchie domeniche al bene di Pentema.

«E’ il paese di origine della mia famiglia», racconta Giulia Vecchia, 26 anni, mentre dipinge di marrone le statue delle mucche con il fidanzato Luigi Parodi. «Ogni anno ci divertiamo a preparare il presepe tutti insieme, ormai è una tradizione. Ed è un modo per tenere vivo il paese». Tra le volontarie più attive ci sono Laura Rubattino, che rammenda i vestiti delle statue rovinati dalle settimane passate sotto le intemperie,  e la mamma di Giulia, psicopedagogista genovese che quando è a Pentema torna a essere “la Franca”. «Pentema è un patrimonio per tutto l’entroterra, speriamo che diventi un punto di riferimento. Anche se non abitiamo qua tutto l’anno, noi che abbiamo la casa a Pentema e a Pentema siamo cresciuti abbiamo il dovere di fare qualcosa, altrimenti sappiamo che il destino di questo paese è l’abbandono». Lo dice sorridendo. «Ma anche quest’anno, grazie al presepe, siamo riusciti a salvarlo».

Foto di Luigi Parodi

Foto di Luigi Parodi

Alpi apuane, tra marmo e lardo

Impossibile non vedere quelle montagne, così bianche da far luce e sembrar coperte di neve anche ad agosto. ll tesoro che custodiscono è noto da più di duemila anni: se ne accorsero i Romani e prima di loro gli Etruschi, ma sono gli ultimi due secoli ad aver lasciato il segno tanto che ormai basta dire “marmo” per pensare a Carrara. Eppure non sono tanti i turisti che si avventurano in queste montagne impervie a due passi dal mare.

Dal casello autostradale servono venti minuti per raggiungere le Alpi Apuane e i bacini marmiferi di Torano, Fantiscritti e Colonnata. Torano è il più lunare e ha fornito i marmi che hanno dato forma ai sogni di scultori e artisti, ma il prediletto da Michelangelo Buonarroti pare fosse il bacino di Fantiscritti. La montagna sventrata appare all’improvviso dopo i Ponti di Vara, simbolo delle cave da quando a fine Ottocento la “Ferrovia marmifera” pose fine a quel lavoro estenuante che andava avanti dall’età imperiale: la “lizzatura” del marmo, ovvero il trasporto sino a valle dei blocchi con la forza degli operai e dei carri tranati dai buoi.

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I Ponti di Vara

I Ponti di Vara

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La “Galleria di Ravaccione n.84” a Fantiscritti è la cava più sensazionale, un’immensa cattedrale scavata nel cuore del monte. La cava nacque nel 1963 quando l’imprenditore Carlo dell’Amico ottenne il permesso di estrarre il marmo dall’interno del tunnel della “ferrovia marmifera”, troppo costosa da rimettere in piedi dopo i danni della seconda guerra mondiale. «All’epoca gli diedero del pazzo, era il primo a pensare di scavare la montagna dall’interno», ricorda la nipote Francesca, che dal 2003 gestisce le visite dei turisti all’interno della galleria. «Ma aveva ragione mio nonno». Da cinquant’anni l’estrazione procede senza sosta e i circa 40 mila metri cubi di marmo estratti sinora hanno lasciato nella pancia del monte uno spettacolo industriale mozzafiato, con giganteschi stanzoni dalle pareti squadrate lunghe decine di metri. 

Galleria Ravaccione

Galleria Ravaccione

Galleria Ravaccione

Galleria Ravaccione

Galleria Ravaccione

Galleria Ravaccione

Dopo seicento metri che attraversano la prima metà della galleria, arriva la sorpresa: dall’interno della cava il marmo appare grigio. «Succede per lo sporco e le luci giallognole che lo illuminano, ma soprattutto perché è bagnato», spiegano le guide durante le visite. «Dopo tre o quattro giorni passati all’aria aperta il marmo torna a essere bianco. Ed è proprio questa la sua caratteristica: bianco con poche venature grigie, grazie alla presenza di carbonato di calcio puro al 99,9 per cento». I soffitti alti diversi metri possono incutere un po’ di timore al pensiero che su di loro poggiano chissà quante tonnellate di marmo, ma niente paura: geologi e ingegneri controllano di continuo la tenuta della cava, assicurandosi che i lavori procedano rispettando la stabilità della montagna. 

Galleria Ravaccione

Galleria Ravaccione

Tra Fantiscritti e Colonnata

Tra Fantiscritti e Colonnata

Dal poggio di Fantiscritti si arriva quindi al bacino di Colonnata, attraverso una galleria scavata nella roccia percorribile con la propria automobile. Nella Cava 177, anche questa attiva, si possono osservare i macchinari usati per l'escavazione del marmo e anche antiche lavorazioni rimaste dall’epoca romana. Di certo non è più il lavoro di una volta, visto il che ora il taglio orizzontale è fatto con la “sega a catena”, una enorme sega elettrica, e quello verticale con cui si creano i blocchi avviene con il filo diamantato. «Si muove a una velocità di quattro metri al secondo e taglia il marmo di circa 5 centimetri ogni minuto», racconta la guida Marco Bernacca della Cava 177, che con veicoli 4x4 organizza visite in tutte le cave del comprensorio. «Prima si usava il filo elicoidale, tre fili di acciaio con la sabbia silicia ricca di quarzo del Lago di Massaciuccoli. Ma era un sistema sette volte più lento. Sino agli anni Cinquanta si è invece usato il sistema dei cunei di ferro: si facevano delle trincee scavate a mano con i picconi, per poi inserire un cuneo e batterlo in modo da “strappare” il marmo dalla montagna». 

Cava 177

Cava 177

Il bacino di Colonnata è il più orientale dei tre e ospita un paesino incastonato tra le cave che ormai tutti associano al lardo, nonostante una storia millenaria dedicata al marmo. E’ qui che nel 40 a.C i Romani crearono i primi alloggi degli schiavi per lo sfruttamento intensivo delle cave di Carrara, molto più vicine a Roma di quelle greche. Nel corso dei secoli gli schiavi si fusero con la popolazione indigena dando origine a una forte comunità montana che ha alternato il lavoro nelle cave con l’agricoltura, l’allevamento dei maiali e lavorazione delle carni.

Colonnata

Colonnata

Colonnata

Colonnata

In salumeria a Colonnata

In salumeria a Colonnata

Le prime informazioni sulla produzione del lardo risalgono intorno all’anno mille, ma pare sia nel 1500 che a causa di una forte crisi marmifera e l’aumento delle attività di allevamento venne imparata la stagionatura del lardo. Da allora è diventato un salume base della dieta del posto, perché adatto al sostentamento delle fasce più povere e utilizzabile in ogni momento dell’anno. Tagliato a fettine sottili insieme al pane e al pomodoro è stato per molti secoli il nutrimento principale dei cavatori. «Addirittura in inverno lo scioglievano e lo bevevano quando faceva freddo», raccontano gli anziani del paese.

Un produttore di lardo

Un produttore di lardo

Il lardo nelle conche

Il lardo nelle conche

Il paese può servire come punto di partenza per camminate da cui raggiungere spettacolari vedute dei bacini marmiferi, dalla Case del Vergheto sino alla cima del monte Brugiana, affascinante monte massese dove è possibile fare anche trekking a cavallo e dormire in un agriturismo immerso nel bosco. Dal dopoguerra la storica attività di Colonnata si è ridimensionata e l’allevamento dei maiali nel paese è scomparso, tanto che ora le bestie vengono importate dalla Lombardia. Ma da quando nel 2004 il lardo di Colonnata ha ottenuto il marchio IGP dall’Unione Europea, la sua produzione è in notevole aumento.

Antonio Musetti nella sua larderia

Antonio Musetti nella sua larderia

L’artigiano Antonio Musetti insieme alla moglie Monica Guadagni prosegue una tradizione familiare che dura da generazioni. Davanti a una serie di vasche in marmo mostra la sua produzione del salume. «Il lardo si fa da settembre a maggio e deve restare nelle conche almeno sei o sette mesi», spiega. «Serve un quintale di sale per vasca, più le spezie tritate che profumano la carne e lasciano loro l’aroma». Quali spezie? Sorride. «Lo stabilisce il disciplinare: ci sono aglio, pepe, rosmarino. Ma nel bilanciarle, ognuno ha il suo segreto». 

(Repubblica.it, 24 novembre 2016)